Diaz: una drammatica trasposizione di significato

Si è avuta ieri la pubblicazione delle motivazioni addotte a suffragio della sentenza, emessa dalla Corte di Cassazione, relativa al processo per le violenze nella scuola Diaz, risalenti al G8 di Genova del 2001. Prima degli eventi in questione il cognome Diaz mi era molto familiare e rimandava ai ricordi d’infanzia pieni di gioia (per me tifoso interista Diaz era il grande attaccante dell’Inter dei record di Trapattoni) o intrisi di pigrizia (Bartolomeo Diaz e lo studio della storia non erano proprio la mia passione principale). Dal G8 di Genova in poi il cognome Diaz si spogliò – ai miei occhi malinconici e sognatori – di quel carattere gentile, di quella reminiscenza infantile, per lasciar posto alla drammatica maturità del reale, alla cruenta consapevolezza della fallibilità dell’essere umano e delle istituzioni, alla fatale acquisizione di coscienza che vi è stata in Italia, nella notte del 21 luglio 2001, una incondizionata e intollerabile sospensione dello stato di diritto. Dalla scuola Diaz e dalla caserma di Bolzaneto non si torna indietro. Non si può pigiare il tasto “rewind” né per l’onore perduto delle forze dell’ordine, né per la credibilità andata in fumo delle istituzioni coinvolte, né per l’immagine devastata dell’Italia all’estero e né – soprattutto – per tutte quelle persone che “armate solo della loro forza vitale” sono sopravvissute alle torture, alle ingiurie e ai maltrattamenti gratuiti cagionati loro dalle nostre forze di polizia. Elencherò di seguito alcuni passaggi salienti presenti nelle motivazioni della sentenza n°38085, rese note al pubblico solo poche ore or sono, nella consapevolezza della loro forza espressiva e del loro potere evocativo: “Un massacro ingiustificabile“, “una pura esplosione di violenza“,“La condotta violenta della polizia ha gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero”,  “l’odiosità del comportamento di chi, in posizione di comando a diversi livelli come i funzionari, una volta preso atto che l’esito della perquisizione si era risolto nell’ingiustificabile massacro dei residenti nella scuola, invece di isolare ed emarginare i violenti denunciandoli, dissociandosi così da una condotta che aveva gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero e di rimettere in libertà gli arrestati, avevano scelto di persistere negli arresti creando una serie di false circostanze”, “C’era l’esortazione rivolta dal capo della polizia ad eseguire arresti”, L’assoluta gravità sta nel fatto che le violenze, generalizzate in tutti gli ambienti della scuola, si sono scatenate contro persone all’evidenza inermi, alcune dormienti, altre già in atteggiamento di sottomissione con le mani alzate e, spesso, con la loro posizione seduta in manifesta attesa di disposizioni”,  “la mancata indicazione, per via gerarchica, di ordine cui attenersi tradotta in una sorta di carta bianca, assicurata preventivamente e successivamente all’operazione. Tutti, insomma, erano liberi di usare la forza ad libitum”,  “nessuna situazione di pericolo si era presentata agli operatori di polizia”, “Caldarozzi era consapevole della falsità del rinvenimento delle molotov all’interno della scuola, perché, per sua affermazione, era entrato nella scuola e si era quindi potuto rendere conto che nelle aree comuni non vi era nulla del genere”, ecc ecc. Nelle motivazioni della sentenza vi è un passo peculiare in cui i giudici specificano come in Italia non esista il reato di tortura, per cui la maggior parte dei reati relativi alle lesioni son cadute in prescrizione ma vi è certezza del fatto che sia stato provato inequivocabilmente ”il ricorrere degli estremi fattuali della gravità e gratuità dell’uso della forza”. Per le violenze della Diaz e di Bolzaneto sono stati condannati 25 tra poliziotti presenti sul posto e alti funzionari deposti dalle loro cariche. Sì, da quel 21 luglio 2001 le associazioni mentali legate al cognome Diaz, ai miei occhi e a quelli del mondo, hanno assunto dei connotati decisamente diversi.

Nato da poco, crescerò!

Scorrendo le pagine del sito di un amico ho trovato il mio blog tra quelli suggeriti (a torto credo), con tra parentesi la precisazione “Nato da poco, crescerà”. Mi vien da sorridere e mi domando a chi si stesse riferendo, se al mio blog o a me. Ovvio al mio blog, ma mi ha fatto riflettere sulla mia esperienza di vita più che trentennale, che sovente sembra non essere ancora sbocciata o forse da tempo abortita. Io questo blog – come il mio presente d’altronde – vorrei farlo crescere seriamente con argomentazioni interessanti, balzi in avanti repentini, virate calcolate e sistematiche torsioni, ma sembrano mancarmi le forze. Credo rimarrà una spoglia e infinitesimale cella del web, al pari delle nostre storie, che spesso sembrano essere rare tracce (per dirla alla Rino Gaetano) di vissuto disumano. Non mi sorprenderei, d’altra parte, se riuscissi a tradire questo mio disegno masochista votandomi al rischio e alla tensione vitale, se prendessi fermamente tra le mani le redini di questo blog portandolo alla popolarità e adornandolo di autorevolezza. Non mi sorprenderei di essere un me stesso sconosciuto come lo sono stato e come lo sarò rileggendo queste righe dissennate e colme di astratta coerenza.

“Che altro succedesse di bizzarro a Mosca quella notte non lo sappiamo, e non ci metteremo certo a cercare di scoprirlo, tanto più che è giunta l’ora di passare alla seconda parte di questa veritiera narrazione. Seguimi, lettore!” 

(Il maestro e Margherita, M.Bulgakov)

Addio Tabucchi, italiano di Lisbona

Non avrei mai voluto che le prime righe di questo blog in via di costruzione, fossero scritte in ricordo di un grande personaggio della cultura passato a miglior vita. Non avrei voluto, ma non posso sottrarmi a questo compito, tanto doloroso quanto necessario, affrettando i tempi e rimandando la definitiva sistemazione del blog per una causa sacrosanta, badando poco alla forma e molto di più alla sostanza. Non posso non ricordare Antonio Tabucchi, nel giorno più “mortale” della sua esistenza. Devo omaggiarlo per il contributo fornito nel suo sforzo di una vita, pessoana d’attitudine e portoghese d’adozione. Come posso non dire che durante la lettura di “Requiem” l’ho sentito vicino (nonostante la distanza siderale in quanto a spessore culturale, umano, ecc. ecc.), addirittura contiguo, in quel luogo interiore rappresentato dall’amore per Fernando Pessoa. Mi decido, allora, a salutarlo con le stesse parole da requiem che la sua arte ci ha donato, affidando al loro valore metaforico la spiegazione del sentimento che mi trovo a con-vivere nell’attimo esatto in cui provo a fargli questo omaggio. V’è però una differenza sostanziale. Rispetto a Tabucchi, non ho avuto possibilità di scelta dello strumento da adoperare per liberare questa musica da requiem, non possedendo nient’altro che un’armonica, a dir la verità, suonata anche malaccio nonostante i buoni propositi.

<<Se qualcuno osservasse che questo Requiem non è stato eseguito con la solennità che a un Requiem si deve, non potrei che essere d’accordo. La verità è tuttavia che ho preferito suonare la mia musica non con un organo, che è uno strumento proprio delle cattedrali, ma con un’armonica, che si può tenere in tasca, o con un organetto, che si può portare per strada>> (A. Tabucchi)